Anno XIII
Numero 1
Aprile 2001

Te la dò io, la mensa!

Il vocabolo italiano deriva dal latino e significa letteralmente “tavola alla quale si siede per mangiare”, secondo quanto attestano già documenti del XII secolo. Ma sembra che, in epoca romana, il termine identificasse addirittura  un dolce sacro, sul quale si disponevano le offerte agli dei: solo più tardi, passò ad identificare, nella lingua comune, la tavola sulla quale era posto.

Oggi, in prima battuta, individua il luogo in cui si consuma il pasto, specie in scuole, ospedali e in ditte, soprattutto di medie e grandi dimensioni. In quest’ultima accezione lo useremo, nel presente fascicolo.

Di che cosa stiamo parlando? Della mensa, una realtà quotidiana, anche in Italia, per migliaia di persone.
Una realtà importante, che riveste un ruolo particolare, diremmo quasi strategico, in ogni azienda che la contempli.
Oltre al “dato” specificamente culinario, infatti, la parola evoca un ambiente indispensabile per “staccare”, per concedersi un salutare “break” rispetto alle fatiche e agli impegni della giornata lavorativa, per creare momenti di aggregazione e socializzazione, favoriti magari da medesimi orari ed abitudini degli utenti: si mangia spesso in un determinato turno, si va alla ricerca dello stesso posto, delle stesse “categorie” di colleghi, perfino delle stesse persone.
Questo concilia il dialogo, la comunicazione: può darsi che si finisca per parlare ancora del lavoro, ma in termini più pacati, e qualcuno ha sempre una battuta pronta per stemperare tensioni e ritemprarsi al meglio, prima di rimettersi all’opera.
Un luogo significativo per molti aspetti, dunque, la cui importanza è stata recepita in modo sempre più evidente e “globale” dalle aziende, negli ultimi decenni. Già, perché anche il “pasto in fabbrica” ha una sua storia, parallela alle stagioni dello sviluppo industriale della nostra penisola, che ebbe il suo “boom” nel secondo dopoguerra. Una storia diversificata per tempi e modi, ma sufficientemente lineare nel suo percorso fondamentale. In principio, fu spesso la  proverbiale “schiscetta” la fedele compagna dei lavoratori (intendendo in primis gli operai): il celeberrimo contenitore per cibi, in alluminio o in acciaio, prima rotondo, con coperchio ed aggancio, capace di ospitare un solo “piatto”, poi più alto e suddiviso in due scomparti, per il primo e il secondo.
Si mangiava ciò che si portava da casa ( o quello che si andava a prendere in trattoria, se la ditta pagava), su un tavolo che si metteva in officina, oppure ci si spostava in un locale apposito, dove erano sistemati un frigorifero ed una cucina, per scaldare le vivande; oppure, magari nel caso degli impiegati, si andava in qualche CRAL esterno.
Solo più tardi (in alcune realtà importanti, quali Autobianchi, Pirelli, Falck e Alfa Romeo, dopo la fine degli anni Sessanta) arrivò la mensa in senso stretto, via via evolutasi sempre più fino a diventare oggi, spesso, una vera e propria ristorazione, capace di tener conto di varie esigenze, di mutate abitudini alimentari, di un’utenza diversificata. Una “creatura” da progettare, realizzare e mantenere con cura ed attenzioni crescenti, per renderla un autentico luogo di benessere, un ambiente salutare, per chi vi lavora e per chi ne usufruisce.
Molteplici sono, a questo proposito, gli aspetti da considerare, come ci ha confermato una piccola “indagine sul campo”, condotta tra addetti ai lavori e utenti.
Accanto agli ovvi riferimenti alla qualità del cibo e all’organizzazione generale del servizio, tre sono state le principali caratteristiche e necessità evidenziate.
In primo luogo, una mensa “d.o.c.” deve essere accogliente e confortevole da un punto di vista acustico. Il primo “nemico” da combattere, in un luogo che produce “naturalmente” suoni e rumori, è l’eccessiva rumorosità, dovuta ad una cattiva propagazione del suono e ad un effetto rimbombo sempre in agguato.
Infatti i primi effetti negativi legati ad un ambiente riverberante coinvolgono la comunicazione verbale alterandola nel numero, nella qualità e nel contenuto. La comunicazione è insomma scoraggiata, limitata all’essenziale e col rischio che i messaggi vengano travisati.

Ma il rumore non solo rende difficoltoso (o vanifica completamente) qualsiasi tentativo di comunicazione, ma incide negativamente sull’organismo, riducendo le capacità uditive e provocando effetti di tipo extra-uditivo, dato che l’orecchio interno è direttamente connesso al sistema nervoso tramite il nervo acustico: ne derivano alterazioni del sistema nervoso centrale, degli apparati cardiocircolatorio e gastroenterico, della funzione visiva.

Gli effetti più evidenti, senza entrare nelle vere e proprie patologie, sono:

  • difficoltà di concentrazione
  • aggressività
  • irritabilità
  • fatica
  • agitazione

Un vero e proprio “killer”, responsabile del 70% delle malattie professionali oggi attestate in Italia. Una mensa oltremodo rumorosa, quindi, non solo rende più arduo il lavoro di chi vi opera, non solo azzera o impoverisce ogni velleità aggregativa e socializzante dell’utenza,  ma contribuisce altresì all’aumento della produzione di succhi gastrici, all’insorgere di crampi allo stomaco, alla diminuzione della vigilanza e dell’attenzione, alla riduzione del rendimento del lavoratore, specie nelle attività di tipo intellettuale.
Infatti, se dopo una pausa pranzo vissuta “pericolosamente” in un ambiente acusticamente ai limiti della vivibilità, si torna sul posto di lavoro più stanchi di prima, la produttività risulterà ridotta con danni anche gravi per l’azienda stessa.
Si tratterà, pertanto, di valutare con molta attenzione (in sede di realizzazione, o di eventuali interventi di “bonifica” ambientale) la tipologia e la disposizione dei materiali fonoassorbenti e degli elementi di arredo che garantiscano un adeguato “comfort” acustico.
In secondo luogo, la mensa (anche la più grande) deve risultare un ambiente “a misura d’uomo”, in cui il lavoratore non si senta “perso” in uno spazio anonimo, spersonalizzante, magari enorme rispetto alle dimensioni del proprio piccolo ufficio.  Un luogo che possa garantire quella riservatezza ed insieme salvaguardare quelle esigenze di comunicazione così ricercate: di qui la possibilità di varie soluzioni capaci di ridurre i volumi, creando altresì effetti ottici di “vedo-non vedo”.
Infine, la mensa deve apparire gradevole alla vista, per forme e colori. Quest’ultimo versante, in particolare, è divenuto recentemente oggetto di studi approfonditi, tesi a precisare l’influenza dell’elemento-colore sui nostri equilibri psico-fisici: ne è derivata un’attenzione crescente anche rispetto alle scelte cromo-acustiche, con l’obiettivo di armonizzare psicologia del colore e del suono, individuando gli abbinamenti più opportuni in corrispondenza della destinazione d’uso dei locali interessati. Per una mensa aziendale, possono risultare adeguate tinte neutre, nè “mortificanti” nè “aggressive”, se l’effetto desiderato è la creazione di un’atmosfera tranquilla e rilassante; oppure, si può puntare su colori più “caldi”, che meglio dispongano all’apertura e alla socializzazione.

Angelo Verderio